Oculisti in fuga dal SSN 

L’oftalmologia italiana sta vivendo un momento particolare, caratterizzato da una profonda crisi. Il commento di Filippo Cruciani, Medico Oculista, referente scientifico di IAPB Italia ETS.

Si tratta di una crisi che non riguarda la ricerca scientifica e tecnologica, che invece sta attraversando un periodo rivoluzionario. Si pensi soltanto all’intervento di cataratta, una volta impresa di sofferenza, lunga e piena di incognite. Oggi viene realizzato in anestesia topica, con una durata di circa 15 minuti nei casi più semplici, con riabilitazione visiva immediata; naturalmente nelle mani di un chirurgo dalla lunga formazione e con la migliore tecnologia. Si pensi inoltre ai progressi della semeiotica strumentale, all’OCT tanto per ricordarne uno, alle terapie endovitreali. Gli esempi sono tanti e sarebbe inutile elencarne di più. 

La crisi riguarda, invece, gli aspetti assistenziali oftalmici, che secondo la nostra costituzione dovrebbero essere garantiti a tutta la popolazione, senza limitazioni di sorta. Oggi in Italia si registra invece un grande bisogno insoddisfatto di cure oculistiche, caratterizzato da lunghe liste di attesa per visita, per esami strumentali, per interventi chirurgici. 

Il nostro sistema sanitario, affidato alle Regioni, si basa su principi fondamentali quali universalità, uguaglianza ed equità e su principi organizzativi quali la centralità della persona, la responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute, la valorizzazione della professionalità degli operatori sanitari, l’integrazione dell’assistenza sanitaria con quella sociale. Sono impegni pesanti da perseguire, soprattutto in un momento come questo, in cui le risorse economiche si riducono sempre più e la coperta non riesce più a coprire i tanti settori assistenziali.  

Il sistema sanitario italiano è stato considerato sempre un modello da imitare da parte dell’OMS che considera una sua priorità strategica il raggiungere e conservare la copertura sanitaria universale (UHC), vale a dire garantire a tutte le persone di poter ricevere i servizi sanitari di alta qualità, di cui hanno bisogno, senza incontrare difficoltà finanziarie. L’OMS sostiene che l’oftalmologia abbia tutte le potenzialità per raggiungere questo obiettivo all’interno delle varie Nazioni; tanto più che esiste un ampio fabbisogno insoddisfatto di servizi per la salute degli occhi.  

I suoi Report, infatti, riferiscono che circa 1 miliardo di persone nel mondo ha un problema alla vista che avrebbe potuto essere prevenuto o che deve essere ancora affrontato; e i suoi esperti affermano che sono disponibili interventi efficaci per affrontare le patologie oculari e disturbi della vista e che alcuni di questi sono tra quelli più fattibili in ambito sanitario ed anche economicamente più vantaggiosi. 

In Italia la copertura sanitaria universale (UHC) oftalmica non è in discussione, però aumentano sempre più gli scricchiolii e non è del tutto tenuto nascosto – e sembra neppure tanto lontano – il rischio di una privatizzazione di parte, se non di tutta l’oculistica, in quanto specialità non elettiva, non salvavita: una sorta di odontoiatrizzazione. 

E gli oftalmologi come si stanno movendo in questo contesto? Fanno valere la loro professionalità? Stanno assumendo un atteggiamento di salvaguardia della specialità all’interno del Sistema sanitario? Oppure “guardano e passano”, senza curarsi di ciò che sta avvenendo? O addirittura tendono ad abbandonare il Sistema stesso?  

Se volgiamo lo sguardo indietro di qualche decennio, troviamo una forte aspirazione degli oculisti a lavorare nelle strutture pubbliche, in particolare nelle cliniche universitarie e negli ospedali. Rimanere all’Università, terminata la specializzazione, era impresa difficile, ma molti cercavano di mantenere un rapporto con la struttura anche come volontari.  

I reparti oculistici erano molto presenti negli ospedali non solo provinciali, ma anche in molti zonali. Nell’area metropolitana della città di Roma, ad esempio, nel 1983 si contavano 13 ospedali con reparti oculistici (solo la clinica oculistica del Policlinico ne contava 5) e i posti letto raggiungevano le 649 unità. Essere assunto in ospedale significava non solo garanzia di lavoro, ma soprattutto crescita professionale e possibilità di fare carriera. D’altra parte, allora come oggi, chi esce da una scuola di specializzazione ha raggiunto sì un buon livello di professionale, ma non sempre la piena maturità, che si ottiene proprio sul campo, specialmente in quello chirurgico dove sono necessari applicazione ed aggiornamento continui; e l’ambiente ospedaliero è sicuramente il più adatto.  

I concorsi erano gestiti dalla stessa classe oftalmologica; molti primari provenivano dall’università con il desiderio di portare ventate di novità. Non è azzardato affermare che esisteva una sorta di orgoglio nell’appartenere ad una determinata “scuola oftalmologica”, magari dell’università dove si aveva conseguito la specializzazione, e/o di lavorare in un determinato reparto oculistico sotto la guida di un primario per lo più motivato a creare un alto livello di assistenza per la comunità referente.  

Le cose cominciarono a cambiare dopo la Riforma sanitaria del 1978 e in particolare con il d.lgs. n. 502 del 1992, con cui furono trasformate da Unità Sanitarie in Aziende “con personalità giuridica e autonomia imprenditoriale”, alle dipendenze delle Regioni. L’elemento economico nelle scelte assistenziali era sempre più preponderante. 

Così tutta l’organizzazione diveniva molto complessa e si colorò sempre più di politica. Le decisioni strategiche videro sempre meno coinvolta la classe medica e le stesse nomine subirono le pressioni degli amministratori e non sempre furono favoriti i migliori. Inoltre si verificò una forte frammentazione territoriale in quanto le varie Regioni si comportarono in maniera indipendente da un coordinamento nazionale e si fece sentire di più il colore della classe politica che di volta in volta era al comando.  

oculisti
Filippo Cruciani

Le variabili, che intervennero ed influirono sull’evoluzione del sistema sanitario – per altro necessaria per le diverse condizioni socio-sanitarie e per i progressi tecnologici – sono molteplici e non è questa la sede per una loro analisi.  

Per rimanere invece sull’argomento e dare risposte alle domande che ci siamo posti, va subito precisato che la figura del medico è stata sempre più relegata all’attività assistenziale e sempre meno coinvolta in quella organizzativa e decisionale. Questo fatto si è accentuato ancor più con il processo di deospedalizzazione, che ha investito la maggior parte dei settori della medicina, ma soprattutto l’oftalmologia, che ha visto ridurre al lumicino i suoi posti letto senza un contemporaneo trasferimento delle molteplici attività assistenziali sul territorio. I 649 posti letto oculistici romani del 1983 sono scesi attualmente a poche unità, per lo più ospitate presso reparti di altre specialità. La chiusura di reparti – diventati nel frattempo UOC – è stata l’occasione per i decisori sanitari, preoccupati principalmente del contenimento dei costi, di ridurre il numero dei primariati, ricorrendo il più possibile ai “facenti funzione”. Si sono così ridotte vieppiù le possibilità di carriera di molti medici dipendenti del Sistema sanitario. 

Allo stato attuale – purtroppo – sta diventando una realtà la fuga di oculisti dagli ospedali verso il settore privato, specie in alcune parti d’Italia.  

D’altra parte, ricercare oggi in un oftalmologo l’antico orgoglio di lavorare in una struttura pubblica è impresa ardua. Almeno questo si avverte nei nostri ambienti, stando a contato con colleghi. Lo dimostra tra l’altro il via libera dato dal Governo alla partecipazione degli specializzandi ad alcuni concorsi pubblici. Ma loro stessi non mostrano entusiasmo nel farlo. Questa disaffezione ha sicuramente numerose cause e sarebbe difficile elencarle tutte ed analizzarle. 

Il fattore economico è sicuramente tra i principali, forse al primo posto. All’interno del sistema sanitario i medici italiani hanno retribuzioni tra le più base d’Europa. I loro colleghi europei guadagnano in media 60.000 euro in più all’anno, con picchi di 205.000 euro in Lussemburgo, 110.000 in Islanda e Olanda, 100.000 in Danimarca, Irlanda e Germania. 

Le basse retribuzioni pubbliche hanno creato un enorme divario tra attività pubblica e privata. Ad esempio, una visita in convenzione ha un rimborso in media 5 volte inferiore rispetto ad una privata; un medico in attività privata (avvantaggiato anche dalle lunghe liste di attesa) può guadagnare in meno di una settimana quanto un dipendente dirigente di 1° livello in un mese.  

Ma ci sono altri motivi. Li accenniamo brevemente: 

  1. Scarsa possibilità di carriera con stipendio quasi lo stesso dall’assunzione alla pensione.  
  1. Nessuna valorizzazione del merito. 
  1. Eccessivo carico burocratico.  
  1. Carenza e vetustà di tecnologie ed attrezzature. 
  1. Richiesta di incompatibilità. 
  1. Facilità di denunce da parte dei pazienti; nonostante che 85% si risolvano con l’assoluzione del medico, si subiscono percorsi legali lunghi e molto stressanti. 
  1. Mancata depenalizzazione dell’atto medico, come già avvenuto in altri Paesi europei. Siamo rimasti solo noi e la Polonia. Tutto ciò favorisce la medicina difensiva che si calcola costi alle casse del Sistema sanitario ben 13 miliardi di euro.  
  1. Rischio di risarcimenti esorbitanti con conseguenti assicurazioni sanitarie molto gravose per il singolo medico, a tal punto che diventa sempre più necessaria una riforma per avvicinare le tabelle di risarcimento a quelle dell’infortunistica stradale. 
  1. Percorsi di aggiornamento obbligatorio mal gestiti e che pesano sulle tasche del sanitario. 
  1. Aggressioni da parte dei pazienti: fenomeni che stanno accadendo ultimamente sempre più spesso e con maggiore violenza. 
  1. Aumento del carico di lavoro per il pensionamento di sanitari senza la possibilità – ma anche volontà – di una loro sostituzione. Nel 2025 circa 40.000 medici andranno in pensione e mancano sostituti (Fonte OMCeO). 

Sono questi i tanti motivi che giustificano non solo la fuga dal Sistema sanitario pubblico ma anche la fuga all’estero di medici e di oculisti, dove, oltre a guadagni maggiori, il merito è al primo posto, la carriera non preclusa e la mobilità verso strutture più accreditate è facilitata.  

Il fenomeno si presenta in tutta la sua gravità: un “censimento” fatto recentemente dalla Fnomceo (l’Ordine dei medici) evidenzia in circa 39.000 i medici andati all’estero tra il 2019 e il 2023, dei quali 11.000 soltanto in un anno, dal 2022 al 2023. La cosa più impressionante è che circa i 2/3 sono specialisti, cioè medici che hanno conseguito la specializzazione a spese del contribuente: formati in Italia e donati all’estero. Nella mia lunga esperienza come docente e tutor in una scuola di specializzazione ho assistito alla perdita di molti giovani specialisti – e devo dire i migliori per preparazione ed impegno – andati in altre Nazioni europee, non trovando in Italia sbocchi di lavoro adeguati e possibilità di carriera.  

Non si deve credere che questo percorso sia stato per loro semplice da perseguire: hanno dovuto superare test molto impegnativi per dimostrare il loro livello di preparazione e di possesso della lingua. Ed ora il loro ritorno è difficile, anche prospettando facilitazioni economiche e di carriera, perché ormai abituati a livelli di organizzazione e di efficienza del lavoro impensabili in Italia. 

A questo punto è giusto chiedersi: la classe medica è solo vittima? o ha anch’essa gravi responsabilità nell’attuale crisi del Sistema sanitario? L’abbandono dei medici è comunque e sempre giustificato? 

Non sarebbe giusto né dignitoso addossare tutte le colpe al sistema politico e non riconoscere alcuna responsabilità della classe medica. Tante decisioni sono state prese di comune accordo o con il suo tacito silenzio. Non è questo il luogo e il tempo per un’analisi che presenta dalle mille sfaccettature. Però un aspetto ci preme sottolinearlo, e cioè la “monetizzazione della professione”. 

Da sempre, sin dai tempi antichi, alla professione del medico è stata associata una forte componente di missione da svolgere, confortata da un giuramento. La giusta parcella era il riconoscimento per l’attività svolta e la garanzia di qualità delle prestazioni. Nel corso della storia è vero che non rare volte ai medici è stata rimproverata una certa venalità, però ciò non ha mai offuscato la loro reputazione.  

In una società come la nostra, in cui il profitto è alla base di ogni attività, l’attenzione a maggiori guadagni ha investito anche la medicina – in particolare l’oftalmologia – e tende ad offuscare i molti aspetti “missionari”. Il numero chiuso per l’ingresso alla facoltà di medicina e per l’accesso alle scuole di specializzazione ha favorito non tanto chi aveva una sorta di vocazione per la professione, ma chi cercava soprattutto un lavoro sicuro e ben retribuito.  Ed oggi assistiamo a situazioni incresciose che coinvolgono i giovani medici. Ne elenchiamo alcune:  

  • Innanzi tutto la propensione per l’attività privata, che concede più guadagni e più tempo libero, come si evince dalla scelta di certe specializzazioni (tra queste figura l’oftalmologia per la mole di prestazioni che richiede);  
  • lo scarso interesse per le attività di pronto soccorso, che richiedono grande impegno, tanti sacrifici e forti responsabilità, ma che hanno sempre rappresentato una palestra formidabile per la crescita professionale (per questo molto ambite in passato);  
  • il quasi rifiuto di specialità meno gratificanti ma fondamentali per l’assistenza come l’anestesiologia, per la diagnostica come l’anatomia patologica o per la ricerca come la farmacologia, e così via;  
  • il crescente abbandono di specialità a forte rischio di contenzioso, come la chirurgia generale.  

Infine non si può non segnalare l’interesse sempre crescente nella classe medica per specialità sicuramente molto remunerative, non previste nei LEA. In primo piano la medicina estetica, intesa come l’insieme delle applicazioni mediche messe in atto con lo scopo di raggiungere e mantenere un aspetto fisico piacevole, che nella maggior parte dei casi risponde a criteri di bellezza secondo i canoni della moda vigente.  

Per l’esplosione del fenomeno e per la sicurezza del paziente è stato addirittura necessario regolamentare un percorso formativo post laurea di ben 4 anni ed  istituire il registro dei medici estetici, che è già attivo presso 12 Ordini dei Medici provinciali.  

Nulla in contrario da parte nostra verso la medicina estetica, quello che dispiace e crea imbarazzo in molti di noi è il fatto che sia diventata più importante e più richiesta rispetto alle prestazioni di pronto soccorso, nonostante che sia perseguibile con investimenti di tempo e denaro, ma con la sicurezza di guadagni futuri. E soprattutto dispiace che si volga lo sguardo sempre più al fuori delle attività e dei programmi del Sistema sanitario. 

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