Una presenza silenziosa, ma decisiva. L’anestesista-rianimatore accompagna i pazienti nei momenti più delicati della vita: dalla nascita, durante un intervento chirurgico, in terapia intensiva, nella gestione del dolore acuto o cronico fino all’ultimo respiro. Con l’evento “Chi ha paura del buio?”, l’Azienda Usl di Piacenza e l’associazione Il Pellicano, in collaborazione con il Comune di Piacenza, accendono i riflettori su una professione centrale per la salute pubblica e il benessere della comunità.
“Siamo gli invisibili della sanità – spiega Ruggero Massimo Corso, direttore del Dipartimento Emergenza-urgenza e Area critica –. Eppure, siamo anche “i direttori d’orchestra” in ogni fase del percorso chirurgico e intensivo”.
Anestesista-rianimatore: un lavoro che inizia prima del bisturi
Il lavoro dell’anestesista-rianimatore non comincia in sala operatoria, ma già nella fase di valutazione preoperatoria. Si tratta di medici specializzati in anestesia, rianimazione, terapia intensiva e terapia del dolore.

L’ambito più noto è quello del percorso perioperatorio: l’anestesista accompagna il paziente in ogni fase, dalla scelta del tipo di anestesia più adeguata, alla sua somministrazione, fino al monitoraggio delle funzioni vitali e alla gestione del risveglio e del dolore post-operatorio.
Ma il suo ruolo va oltre. Lavora nei reparti di terapia intensiva con pazienti critici da stabilizzare, spesso grazie a tecnologie complesse. Interviene anche nella gestione del dolore cronico e nelle situazioni di emergenza-urgenza.
“In sintesi, l’anestesista-rianimatore è lo specialista che garantisce la sicurezza del paziente nei momenti più delicati, sia negli interventi programmati che in quelli d’urgenza. È anche colui che, spesso, parla con i familiari quando il paziente non può farlo. In un certo senso, siamo i custodi della soglia tra coscienza e incoscienza, tra fragilità e stabilità, tra la vita e la condizione critica” continua Corso.
“Gli invisibili della sanità”
“C’è una scarsa consapevolezza pubblica del nostro ruolo – sottolinea Corso –. Non è solo un problema italiano, ma globale. Studi recenti indicano che un paziente su due non sa che l’anestesista è un medico e non conosce il suo ruolo”.
Una mancanza di consapevolezza che si riscontra anche tra gli addetti ai lavori: spesso, l’anestesista è visto come un tecnico al servizio di specialisti come chirurghi o cardiologi.
“Il nostro lavoro si svolge in silenzio, dietro le quinte. Come a teatro: si ricordano gli attori, ma non chi lavora nel backstage. Eppure, senza di noi, lo spettacolo non può andare in scena”.
I media parlano frequentemente di chirurgie all’avanguardia, ma raramente raccontano chi ne garantisce la sicurezza. Paradossalmente, l’anestesista compare nel racconto pubblico solo in caso di complicanze.
“Dobbiamo comunicare non solo le competenze tecniche, ma anche il lato umano della nostra professione: la motivazione, la responsabilità, la cura invisibile che ogni giorno offriamo ai pazienti. Serve rigore, disciplina, sangue freddo. Ma anche empatia, ascolto, capacità di stare accanto alla fragilità”.
La crisi di vocazioni e l’urgenza di un nuovo racconto
Oggi la specializzazione in anestesia e rianimazione è tra le meno scelte dai giovani medici. I motivi non sono solo legati a stress o retribuzione, ma anche alla scarsa conoscenza del ruolo.

“Se non raccontiamo chi siamo – avverte Corso – non potremo attrarre nuove vocazioni. Aumentare i posti nelle scuole di specializzazione non basta, se poi restano vuoti. Dobbiamo raccontare quanto sia decisiva e importante la figura del medico anestesista all’interno del sistema sanitario nazionale. Questo può ispirare le nuove generazioni”.
“To cure” e “to care”
Chi immagina la terapia intensiva la vede come un luogo freddo e dominato dalla tecnologia. Ma chi ci lavora sa che la componente umana è essenziale.
“L’inglese distingue bene: to cure è curare, to care è prendersi cura. Noi ci prendiamo cura delle persone in senso reale. Il paziente, spesso incosciente, non può comunicare. I familiari diventano i nostri interlocutori. Comunicare con loro, accoglierli, spiegare, ascoltare: non è un accessorio. È parte integrante della cura”.
A Piacenza è nato il progetto “Terapia intensiva aperta”, per ripensare gli spazi e favorire la presenza dei familiari. Non solo in rianimazione: anche nelle sale d’attesa, prima dell’anestesia, si lavora per creare ambienti più accoglienti e meno impersonali.
“Insieme all’associazione Pellicano stiamo lavorando per rendere questi luoghi meno asettici per far sentire più a loro agio familiari e pazienti”.
Anestesista-rianimatore: un evento per uscire dal buio
“Chi ha paura del buio?” è un’iniziativa che ha come obiettivo far uscire dall’ombra una figura chiave del sistema sanitario, costruendo un nuovo patto di fiducia con i cittadini.
“È giusto che la popolazione sappia che tutte le persone della sala operatoria sono importanti e lavorano per il malato. Troppo spesso non le conosciamo e ciò che non conosciamo ci fa paura. Vogliamo raccontare il nostro lavoro con autenticità – conclude Corso –. L’anestesista-rianimatore è colui che veglia nel momento in cui il paziente è più indifeso. Se sapremo comunicarlo, forse qualcuno tra i giovani sceglierà di seguirci in questa missione che, più che un mestiere, è una vocazione”.