Il dolore vulvare: “Non è normale che le donne soffrano”  

Invisibile e spesso ‘silenziato’, il dolore vulvare comprende diverse patologie che possono condurre ad una condizione cronica. Una mostra a Mondovì, con la supervisione scientifica della Prof.ssa Raffaella Ferrero Camoletto e curata dalla dott.ssa Federica Manfredi, ne racconta l’essenza
dolore vulvare
La Prof.ssa Raffaella Camoletto, la dott.ssa Federica Manfredi, curatrice della mostra, e la borsista Nicole Bonfanti

Il prossimo 6 dicembre sarà inaugurata la mostra “Il Dolore Vulvare. Arte. Scienza. Resistenza”, parte di un progetto di ricerca finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e organizzato dal da Dipartimento di Cultura, Politica e Società dell’Università di Torino con il patrocinio della Commissione Regionale Pari Opportunità della Regione Piemonte. 

La mostra 

“Il dolore vulvare si può manifestare in diverse forme, come punture di spilli, bruciore, sensazione di corpo estraneo, fitte, dolore intermittente o costante, provocato con contatto esterno o spontaneo, anche in assenza di stimolazioni. L’intento della mostra è quello di dar voce a tutte quelle donne che manifestano questi sintomi a causa di patologie che provocano questo dolore” ha detto Raffaella Ferrero Camoletto, Professoressa Associata di Sociologia dei processi culturali e referente scientifica del progetto. 

“Sono tante le malattie caratterizzate da dolore pelvico vulvare, ma abbiamo voluto mettere in evidenza due casi di studio che hanno alcune caratteristiche comuni ma non la stessa condizione rispetto al loro riconoscimento nel Servizio Sanitario Nazionale, ossia l’endometriosi e la vulvodinia. La mostra vuole mettere al centro le persone che ne soffrono e il personale sanitario che ne accompagna la cura. Non meno importante è il ruolo dei caregiver, parenti amici partner, e come funziona la relazione con i pazienti, anche per l’impatto che hanno queste malattie sui loro rapporti”. 

Cosa manca al SSN per il loro riconoscimento? 

“Dal punto di vista sanitario, queste sono malattie che mettono in scacco il SSN. I dati sono stati raccolti con delle survey all’interno della rete di associazioni di pazienti, e non sono quindi dati ufficiali, ma dimostrano un ritardo nella diagnosi molto elevato, anche di 5 anni.  

Le persone prima della diagnosi devono girare molti specialisti per tutta Italia, e non esiste un protocollo terapeutico validato e uniforme. È tutto a carico del paziente perché non c’è un riconoscimento ufficiale di queste patologie. È una battaglia che l’associazione principale, che ne raccoglie altre, il Comitato Vulvodinia eNeuropatia delpudendo, porta avanti per avere un riconoscimento politico di queste patologie. 

Nel 2021 è stata presentata alla Camera una proposta di legge per riconoscere la vulvodinia come patologia cronica e invalidante, grazie anche all’appoggio mediatico dell’influencer, modella e attivista Giorgia Soleri, proposta che al momento non è stata approvata.

L’endometriosi ha invece avuto il riconoscimento nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ma soltanto a partire dal terzo stadio di gravità, ossia quando patologia ha raggiunto forme più gravi. 

Il problema c’è anche per un ritardo nella preparazione del personale medico. Lo denunciano addirittura i medici stessi, perché nei corsi di laurea di medicina non si trattano ancora in modo sufficiente questo tipo di malattie”. 

Qual è l’apporto delle scienze sociali nell’approcciare il tema del dolore vulvare? 

“Quello di cui ci occupiamo noi scienziate sociali (nel team di ricerca siamo sociologhe, antropologhe, linguiste, psicologhe, geografe) è lo sfondo culturale dietro cui o dentro cui il dolore vulvare si colloca, e che ne general’invisibilità. L’invalidazione del dolore vulvare è legata a una generale tabuizzazione della sessualità femminile, di cui si parla poco, ma che al tempo stesso è soggetta ad un controllo medico normalizzato.  

Un esempio concreto è che il dolore vulvare è, spesso, anche in famiglia dato per scontato. Perché le donne hanno le mestruazioni, e nella concezione comune è normale che soffrano, e non è nulla di grave. Le donne sono invitate culturalmente a minimizzare questi aspetti. E la stessa dinamica si manifesta anche in scambi tra medico e paziente: da testimonianze di attiviste, spesso la risposta del medico è stata di non preoccuparsi. Si sono anche sentite dire che, alla peggio, avrebbero potuto cambiare partner. Il problema non era preso sul serio, era minimizzato”.  

La diagnosi 

“Molte donne non hanno una diagnosi non solo per la scarsa preparazione del medico, ma perché aspettano tanto per andare a fare i controlli. Vanno quando non riescono più ad avere rapporti, quando il dolore diventa insopportabile. Entra in gioco l’associazione tra il modo di fare sessualità ed essere donna: il sentirsi meno donna le porta dal medico.  

Il dolore vulvare impedisce alle affette di restare sedute su una sedia, camminare, devono portare intimo bianco di cotone, non riescono a indossare pantaloni aderenti. Sono tanti elementi di rinuncia per ridurre il rischio di infiammazione. Nella ricerca che ha condotto alla mostra. la visione della sessualità è emersa come la punta dell’iceberg che ci fa vedere tutte le storture di una cultura più ampia.  

Mentre l’endometriosi è diagnosticabile, la vulvodinia viene individuata con una sorta di test del dolore (lo swab test, con un cotton fioc sfiora delle parti e la paziente deve dire dove sente dolore). È una patologia che sfida a cambiare la modalità dell’individuazione della diagnosi tramite una collaborazione tra medico e paziente. Se la paziente che dice che c’è dolore, è in grado di sapere quale sia il dolore e dove sia localizzato, anche senza cotton fioc. Questo tipo di rapporto deve essere innovato e trasformato in ascolto reciproco”. 

Il ruolo delle associazioni 

“Le associazioni dei pazienti fanno un capillare lavoro sul territorio nazionale per favorire la comunicazione e la prevenzione, nelle scuole, nei gruppi giovanili, per raccontare le esperienze delle pazienti e sensibilizzare sulle specificità della patologia. L’intento è di rendere visibili e condivisibili le esperienze il dolore vulvare e generare domande cliniche sul perché abbiamo difficoltà a dare un nome a certe parti del corpo, che spesso sono chiamate con parole gergali, volgari, eufemismi. 

Da parte nostra, stiamo cercando, con diversi progetti di public engagement, di attuare un lavoro più culturale sui tabu che conducono al mancato riconoscimento della malattia da parte delle pazienti. Il dolore vulvare non viene individuato sia perché è normalizzato, sia perché la paziente potrebbe provare vergogna, perché è una parte del corpo particolare, e dà la sensazione che sia qualcosa di privato (legato maggiormente al sesso)”.

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