Italia/Usa: pratiche di Risk Management sanitario a confronto

Dalla sua duplice prospettiva di Responsabile di Risk Management in Toscana e professore presso la New York University, Francesco Venneri esplora l’incontro tra due sistemi sanitari, evidenziando ciò che possiamo apprendere dal confronto con gli Stati Uniti
L'immagine raffigura Francesco venneri, intervistato durante la fiera Welfair. IL tema trattato dall'intervista è Che buone pratiche di Risk management sanitario può imparare l'Italia dagli USA?
Francesco Francesco Venneri, Clinical Risk Manager USL Toscana Centro

In particolare, sottolinea come la Morbidity & Mortality Review rappresenti uno “strumento estremamente potente” e un cambio di paradigma verso un approccio al risk management “positivo e non semplicemente proattivo”.

Che buone pratiche di Risk management sanitario può imparare l’Italia dagli USA? E quali delle nostre possiamo esportare oltre atlantico?

Questa è la riflessione che si è posto Francesco Venneri, Clinical Risk Manager presso l’USL Toscana Centro, quando, due anni fa, gli è stato proposto di tenere un corso sulla gestione del rischio alla New York University, rivolto alla formazione di medici e professionisti sanitari.

Qual è l’approccio statunitense al rischio sanitario?

“Gli americani godono di un vantaggio significativo grazie alla loro familiarità con il metodo internazionale della Joint Commission. Si tratta di una certificazione estremamente rigorosa, basata su una serie di audit approfonditi condotti da un team multidisciplinare. In Italia, solo alcune realtà sanitarie, come l’Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer di Firenze, scelgono di intraprendere un iter così impegnativo per la certificazione di specifici percorsi terapeutici.

Il principale punto di forza di questo approccio risiede nella capacità di promuovere una consapevolezza diffusa a tutti i livelli del sistema sanitario sull’importanza della gestione del rischio clinico e delle strategie per la sua mitigazione. L’approccio si distingue per una costante e decisa ricerca del miglioramento. Fondato sulla cultura del no-fault, non punta a individuare «di chi è la colpa» in caso di errore o evento sentinella, ma si concentra su come l’intera organizzazione possa evolvere per prevenire il ripetersi dell’errore. Questo metodo incoraggia gli operatori sanitari a ragionare in un’ottica di sicurezza, percependo il risk management come un alleato. Il risultato, paradossalmente, è una riduzione dei protocolli di sicurezza eccessivamente burocratici – abbiamo ancora troppa carta! – puntando, invece, su una maggiore attenzione alle procedure operative, con una conseguente diminuzione degli eventi inattesi.

L’approccio statunitense si distingue per essere al tempo stesso estremamente rigoroso e di buon senso. Non si concentra sulla ricerca di colpevoli, ma sull’individuazione dei problemi da risolvere. Favorisce il confronto e spinge a interrogarsi su come agire concretamente per migliorare.”

Per il secondo anno di fila, ha insegnato alla New York University gestione del rischio. Qual è stato il cuore del suo insegnamento?

“Mi è stato chiesto di rispondere ad una domanda molto semplice e, coerentemente all’approccio americano, molto pratica: «Cosa devono fare gli operatori in caso di eventi avversi o eventi sentinella? Che route e protocolli concreti devono applicare?»

Ho condiviso l’esperienza e le buone pratiche della Toscana, sviluppate in particolare negli oltre 15 anni di lavoro che hanno visto Riccardo Tartaglia alla guida del Centro Gestione Rischio Clinico della Regione. In questo secondo anno alla NYU, il metodo di fare lezione direttamente nei reparti ha riscosso un enorme successo. Riunendo medici e infermieri attorno a un tavolo, abbiamo analizzato insieme gli eventi avversi occorsi, identificato i rischi presenti nei processi e discusso le soluzioni migliori per affrontarli. Questa attività di mappatura del rischio sia a priori che a posteriori del rischio ha generato non solo un forte interesse e un’ampia partecipazione, ma anche una serie di misure concrete per migliorare e mitigare il rischio. Grazie a questo confronto diretto, le misure implementate hanno portato a una riduzione tangibile e misurabile degli incidenti.

Si tratta di un approccio che si è dimostrato estremamente efficace e che ho avuto il piacere di sperimentare negli Stati Uniti. Ritengo che possa essere adattato e applicato con successo anche al contesto italiano.

Che cosa, invece, possiamo imparare in Italia dall’esperienza di risk management sanitario degli USA?

“Oltre al già citato approccio no-fault, che prevede il superamento della colpevolizzazione degli operatori, risulta di straordinaria utilità quello che viene definito ‘morbidity and mortality review’.

La brillante intuizione alla base di questo approccio risiede nella sua capacità di andare oltre l’analisi dei fallimenti, concentrandosi anche sui casi di successo. L’obiettivo è individuare le tecniche migliori partendo dai dati e dai risultati terapeutici degli interventi andati a buon fine, costruendo, così, un sistema che apprende sia dagli errori che dai successi. Questo metodo rappresenta un esempio di risk management positivo, oltre che pro-attivo: non si limita a indagare cosa sia andato storto in caso di eventi avversi o sentinella, ma analizza i fattori chiave che hanno contribuito ai risultati favorevoli, trasformandoli in buone pratiche replicabili”.

“In caso di estubazione accidentale in terapia intensiva, la domanda non è: «Perché è accaduto a questo singolo paziente?». L’analisi, infatti, si amplia a tutti i pazienti, ponendosi piuttosto il quesito: «Quali fattori hanno contribuito a prevenire che questo evento avverso si verificasse in altri casi?». Si tratta di un cambio di prospettiva significativo: non solo si affronta il rischio in modo pro-attivo e costruttivo, ma, ampliando il numero di casi su cui basare la nostra analisi, aumenta proporzionalmente anche la possibilità di ottenere spunti utili per rafforzare la sicurezza. Questa è, senza dubbio, una buona pratica che porto dagli Stati Uniti in Italia”.

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