“La medicina è imperfetta e, in tutti i luoghi dove ho lavorato – Ferrara, Stanford (USA), il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano e ora il Dipartimento di Oncologia dell’AULSS 9 di Verona – ho sempre riscontrato una costante: non importa quanto buono sia il PDTA scelto, se non considera la dimensione umana e sociale del paziente, rischia di rimanere lettera morta. Questo può portare a interruzioni delle terapie e a uno spreco di risorse pubbliche.
Uno dei principali ostacoli nella costruzione di percorsi efficaci, lo dico da medico specialista, è il bias cognitivo della specializzazione. Siamo spesso abbagliati da quello che conosciamo meglio, convinti che la nostra specializzazione offra sempre la soluzione ideale. Questo approccio focalizzato sulla malattia, però, fa sì che troppo spesso ci si dimentichi della persona. Un PDTA, invece, deve essere uno strumento che pone il paziente al centro come unità di misura, migliorando qualitativamente e quantitativamente la sua vita, semplificandola, riducendo il carico burocratico ed evitando esami inutili grazie a una standardizzazione ragionata, facile da seguire e da adattare alle esigenze individuali.”
Questo è il presupposto dal quale parte Francesco Fiorica, Direttore del Dipartimento Intraziendale Strutturale di Oncologia Clinica dell’AULSS 9 Scaligera di Verona – bacino di utenza: 1 milione di persone – i cui tre ospedali di S. Bonifacio, Legnago e Villafranca hanno appena ricevuto il bollino azzurro della Fondazione Onda per la salute uro-genitale maschile.
Il nuovo PDTA della prostata di Verona
È il decimo PDTA che Fiorica ha contribuito ad aggiornare nel corso della sua carriera. È un PDTA ancora in costruzione e che presenta diverse componenti originali che girano su una visione paziente-centrica.
“In primis non si limita alla prostata ma riunisce diverse condizioni oncologiche dell’ apparato urogenitale. In secondo luogo, cerca di focalizzarsi sulla realizzazione di una centralizzazione delle informazioni digitali tra i tre ospedali, in modo da standardizzare le risposte e risparmiare tempo, risorse ed esami inutili sia alla persona che all’azienda.
Propone, infine, due livelli di complessità: il primo a livello ospedaliero, per la gestione ordinaria delle patologie con protocolli standardizzati; il secondo a livello aziendale, per il confronto su casi più complessi. In entrambi i livelli, emerge la necessità di una nuova figura professionale che deve facilitare l’integrazione tra i reparti ospedalieri e tra questi e l’infrastruttura digitale; monitorare il rispetto del PDTA, identificando le criticità che possono emergere; comunicare con il paziente e i familiari per garantire la continuità del percorso.”
Il ruolo centrale dell’infermiere case-manager
“L’infermiere è la figura fondamentale di connessione tra la persona malata, i suoi familiari e l’intero percorso sanitario. È la figura che può e deve colmare il gap di comunicazione che i medici, per limiti di tempo o formazione, non riescono a soddisfare pienamente. Ovviamente il case manager deve essere formato specificamente per interpretare i bisogni emotivi, sociali e pratici del paziente, promuovendo una relazione di fiducia“.
Per Fiorica non si tratta solo di ‘umanità’, ma anche di ‘efficientamento’ delle risorse. “Il tema è l’allocazione corretta delle risorse”.
“Se non si prendono in considerazione le problematiche sociali e personali del paziente, l’intervento clinico è decontestualizzato e, per questo, potrebbe essere non solo meno efficace ma addirittura portare ad impatti negativi sia sulla salute del paziente che sull’efficienza del sistema.
Per questo dobbiamo investire in collaborazione interprofessionali (infermieri ,assistenti sociali) che possa dare un serio contributo alla personalizzazione del trattamento. Puntualizzo che personalizzazione deve significare ragionare con una prospettiva incentrata sull’individuo e sul suo contesto che deve arricchire le decisioni cliniche.”
Quali i passi futuri?
“Questo lavoro deve anzitutto andare nella direzione di un PDTSA – un Percorso diagnostico terapeutico socio-assistenziale. Oltre a ciò, abbiamo l’obiettivo di arrivare all’ambulatorio multidisciplinare dove il paziente deve essere messo nella condizione di trovare tutte le risposte delle quali ha bisogno. Non scordiamoci che l’empowerment del paziente è uno dei cardini della clinica. Altro obiettivo che ci proponiamo è trovare una validazione terza delle scelte cliniche per ridurre il bias cognitivo della specializzazione.
Ogni specialista, infatti, è portato a consigliare ciò che conosce meglio. Nel caso del tumore alla prostata, per esempio, le opzioni terapeutiche sono prostectomia, radioterapia e sorveglianza attiva. Il risultato clinico, dati alla mano, è del tutto comparabile ma le implicazioni sono molto diverse per il paziente. Quale deve essere quindi il criterio per offrire il miglior trattamento? Considerare sempre le preferenze del paziente, il suo stato emotivo e il suo contesto familiare: in altre parole valutare la persona e non solo il paziente”.