Questo articolo è la seconda parte di Occhi senza volti: 1. Dal passato al presente
L’adagio “fare di necessità virtù” sembra trovare applicazione anche nella modernizzazione del dato sanitario.
Nel nostro Paese ed in quelli di comune riferimento (“industrializzati”) diamo per scontato che sia garantito l’accesso ad una struttura sanitaria pubblica, o quanto meno ad un pronto soccorso. Per scelta o per ripiego, l’out-of-pocket è comunque sempre disponibile, a volte al prezzo aggiuntivo di una scomodità logistica. Questo sistema tende ad autoperpetuarsi, quanto meno perché è difficilissimo che si crei la circostanza per la quale ricevere una prestazione sanitaria diventi pressoché impossibile. Questa è però la situazione più diffusa nei Paesi del Terzo Mondo (cosiddetti LMIC, Low- and Middle-Income Countries), dove le strutture sanitarie sono notoriamente carenti e le distanze spesso proibitive; non per niente, tale setting rimane uno dei principali campi di studio, ricerca ed applicazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Nel mondo
È spesso realtà che una nazione del genere funga da campo di applicazione su vasta scala di tecnologie (anche informatiche) sviluppate in Paesi industrializzati. E proprio in questo ambito vale la pena di citare una metodologia intuitiva e banale dal punto di vista informatico, ma che sta raggiungendo una considerevole diffusione solo in questo periodo e di strada ne ha ancora da fare: la digitalizzazione delle immagini e la loro interpretazione a distanza. Questa applicazione della Telemedicina in campo oculistico sta affrontando il problema della cecità su vasta scala, con il plauso anche dell’OMS, che ne tratta nel suo World Report on Vision del 2019, documento di riferimento per la politica sanitaria anche di Paesi cosiddetti “ricchi” (ma certamente non omogeneamente tali, quanto meno al loro interno).
È opportuno ricordare che l’OMS stessa conta circa 2,2 miliardi di persone al mondo affette da una capacità visiva limitata, fino alla cecità totale. Un dato sicuramente devastante ma, se andiamo a spacchettarlo, dimostrativo delle differenti realtà. Le cause di ipovisione più diffuse considerando l’intero Pianeta sono i difetti di vista e la cataratta. Nei Paesi industrializzati, questo non verrebbe mai in mente, in quanto pressoché tutti hanno accesso ad una correzione con occhiali e, anche se bisogna spesso fare i conti con le attese, almeno 600.000 persone l’anno in Italia si liberano del problema della cataratta almeno in un occhio.
Altre cause di ipovisione
Ma esistono cause di ipovisione anche più “trasversali”, ed a volte prevalenti nei Paesi ricchi. Le altre tre, infatti, sono il glaucoma (nella forma più diffusa, legato all’età), la Degenerazione Maculare Senile (o Legata all’Età, DMLE), e la Retinopatia Diabetica, molto legata anche allo stile di vita alimentare.
L’aspetto scientificamente interessante di queste tre patologie è che due su tre (glaucoma e DMLE), e la terza per la maggior parte (RD, nella maculopatia diabetica e nelle forme a rischio di emorragia che sono ivi concentrate), si manifestano in un’area relativamente piccola dell’occhio, il cosiddetto “polo posteriore” della retina. Una zona la cui visualizzazione è impossibile dall’esterno a meno di utilizzare appositi strumenti e lenti, ma che è responsabile di buona parte della nostra visione quotidiana e del nostro rapporto, anche posturale, con l’ambiente.
In esso, infatti, sono concentrati la macula, che è la porzione retinica con la quale osserviamo e interpretiamo nei dettagli gli oggetti di nostro interesse, e il nervo ottico, “cavo di connessione” tra la retina, che riceve l’immagine, ed il cervello che la integra ed interpreta. Esso contiene meno di un milione di piccole fibre nervose che la retina produce e che si dirigono verso il cervello. Sono inoltre presenti vasi sanguigni (piccole arterie e vene, e capillari), e la retina è l’unico luogo dell’organismo dove la circolazione sanguigna e molte sue turbe sono osservabili “dal vivo”.
Un esempio
Si pensi, ad esempio, al diabete. La componente microvascolare della sua fisiopatologia può essere agevolmente studiata sulla retina mediante l’esame appunto del cosiddetto “fondo oculare” o “fundus oculi”, che i diabetologi stessi eseguivano ed ancora eseguono con piccoli strumenti portatili. La corrispondenza tra il decorso clinico della patologia di base e le modificazioni retiniche, al netto di altri fattori concausali, è stata da tempo riconosciuta così significativa da far sì che il valore-soglia di uno dei parametri più rappresentativi, l’emoglobina glicosilata (HbA1c), sia stato fissato proprio correlando il dato all’insorgenza di un quadro di sofferenza microvascolare retinica (RD) grave.
Ovviamente, se l’esame del fondo è utile per il monitoraggio della patologia diabetica, è fonte esso stesso di informazioni su quadri localmente patologici. Un adeguato monitoraggio permette l’identificazione precoce di lesioni che, in buona parte, possono essere gestite terapeuticamente, salvaguardando la vista o, quanto meno, rallentandone la perdita.
Si può standardizzare?
Con tutto questo patrimonio clinico a disposizione in un’area così piccola, facilmente accessibile e ben rappresentabile iconograficamente mediante strumenti fotografici digitali che oggi arrivano persino ad essere portatili, sarebbe facile immaginare una corsa alla standardizzazione delle tecnologie di ripresa, delle classificazioni dei quadri clinici, dello scambio di informazioni tra colleghi della stessa specialità ma anche di specialità coinvolte (il binomio oculista-diabetologo è da manuale nel caso della RD), all’archiviazione delle immagini per un follow-up che prescinda dall’impressione soggettiva del singolo specialista, all’utilizzazione dei dati a fini di epidemiologia e governance.
Non è tutto così semplice. Certamente non si può affermare “esame del fondo clinico = esame del fondo su fotografia del polo posteriore”, perché – a meno di utilizzare apposite metodiche – la fotografia non permette una visione tridimensionale che in alcuni casi è fortemente utile se non discriminante. E perché la fotografia del polo posteriore lascia inesplorata una grande porzione della retina, essa stessa possibile sede di patologie proprie, o di localizzazioni anche importanti della RD. Va citato che il mercato mette a disposizione attualmente anche apparecchi fotografici grandangolari, che arrivano a coprire pressoché tutta l’estensione della retina.
In Italia
Pertanto, nel nostro Paese le attenzioni relative all’impiego della metodologia fotografica in Oculistica, anche come solo screening, sono state e sono tuttora tante. Essa può, proprio per la sua caratteristica di poter non essere una prestazione integralmente frontale, cadere nella voragine della gestione della privacy e nella possibilità di intoppi medico-legali. D’altra parte, però, sull’Oculistica pubblica si abbatte la scure delle liste d’attesa, e non è pensabile attualmente immaginare, ad esempio, che circa tre milioni e mezzo di pazienti con diabete accedano all’esame del fondo oculare ogni anno (o, in casi persistentemente negativi, ogni due anni al massimo) eseguendo l’esame nelle strutture ambulatoriali.
Peraltro, l’uscita di questo volume coincide con un’altra svolta fondamentale nella programmazione oculistica dedicata ai pazienti con diabete. Dopo decenni di onorato servizio, una prestazione storica quale l’”esame del fundus oculi”, codice 95.09.1 ed in classe di esenzione 013 (diabete mellito), esce definitivamente dai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) secondo la loro riforma del 2017 e valorizzazione del 2023. A disposizione del paziente con diabete resterebbe la “visita oculistica complessiva”, che comprende anche misurazione del visus, prescrizione di occhiali, esame delle strutture oculari restanti, misurazione della pressione oculare.
Pensiero nobile nell’intenzione dei consulenti del Legislatore, ma, di nuovo, poco pratico, per le considerazioni di cui sopra relative alle liste d’attesa.
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