Tra le cause la ciclicità dell’immunizzazione di gregge, l’aumento delle temperature, le resistenze alla terapia tradizionale e le condizioni disumane in cui vengono imprigionati in migranti in Libia.
Malattia negletta, figlia delle povertà, del sovraffollamento; imbarazzante e, perciò, nascosta ma la scabbia sta tornando in Italia. “E bisogna parlarne pubblicamente, perché non è una colpa dell’individuo – sono pochi gli strumenti di prevenzione – ma è un problema per tutta la società. Maggiore è la diffusione della scabbia – Paolo Fazii, Direttore Medico dell’UOC Microbiologia e Virologia Clinica di Pescara – maggiore è il rischio che le tante persone immunodepresse – neonati, pazienti oncologici, trapiantati, anziani etc – vengano infettati e con forme clinicamente gravi e difficili da trattare”.
L’incremento della scabbia in Italia

“Da che vedevo 10 pazienti all’anno, ora sono 1 o 2 al giorno, per lo meno negli ultimi tre mesi, quelli più freddi nei quali maggiori son o i numeri dei casi di scabbia nelle zone temperate. Non è un fenomeno locale. Testimonianze ed articoli di giornale indicano picchi in diverse zone d’Italia. Il problema, però, è che il fenomeno è sotto-riportato. Le persone tendono a celarlo. Bisogna parlarne, invece, perché conoscere significa curare. Medici e manager sanitari hanno, poi, bisogno di dati per capire come e con che profondità intervenire”.
Scabbia: che cos’è
“È una malattia prodotta da un parassita. L’acaro in questione è il Sarcoptes scabiei var. hominis. È un artropode ad otto zampe di circa mezzo millimetro che può vivere solo colonizzando la pelle umana cibandosi delle cellule epiteliali. La femmina, dopo la copula, scava fino a 5mm al giorno di tunnel epidermici – sotto la pelle ma sopra al derma – dal caratteristico tracciato ad S italica deponendo fino a 50 uova prima di morire dopo 4/8 settimane. Le uova, gli escrementi, la saliva e l’acaro stesso generano una risposta immunitaria che provoca arrossamenti – papule – e un prurito incontrollabile. Se non curata l’infestazione può durare mesi o anni in soggetti sani”.
Come si trasmette
“Attraverso il contatto con la pelle – o tessuti come lenzuola – e la condivisione di spazi di vita in comune. Famiglia, ospedali, RSA, ospizi, scuole, spogliatoi sportivi sono tutti spazi che favoriscono il contagio”.
Perché è un problema sanitario e sociale?
“In soggetti sani la scabbia è invalidante nella misura in cui lo sono la mancanza di sonno – l’acaro è attivato dal calore e prospera sotto le coperte e i maglioni in autunno e inverno – e la necessità incontrollabile di grattarsi in tutto il corpo fatta eccezione per l’ovale del viso e il cuoio cappelluto. Le zone di maggiore interesse per l’acaro sono l’inguine ed i genitali per gli uomini e l’areola mammaria per le donne; le ascelle e la pelle più soffice tra dita dei piedi e delle mani per entrambi. In un soggetto non immunocompetente si trovano tra i 12 e i 18 acari adulti e attivi sul corpo. Grattarsi spesso genera delle lesioni secondarie oltre a creare un forte imbarazzo in pubblico”.
Cosa succede, invece, nei soggetti immunodepressi?
“Le forme sono molto più gravi e lunghe da trattare e possono culminare nella rara forma nota come scabbia norvegese, dove gli acari si moltiplicano superando le migliaia o i milioni di esemplari e la pelle assume la consistenza del feltro. Una condizione dalla quale si può guarire, premesso che si risolva la causa prima dell’immunodepressione, ma non con facilità”.
Perché i casi di scabbia aumentano in maniera tanto marcata in Italia?
“L’incremento è impressionante e le ragioni sono tante. C’è una ciclicità nell’immunità di gregge con picchi di forte protezione e picchi opposti, quando la memoria immunitaria si fa più labile e la popolazione è più vulnerabile. Questi cicli interessano, contemporaneamente, anche piattole e pidocchi. L’acaro della scabbia, oggi, è ubiquitario anche nel mondo occidentale ma, originariamente, era più frequente nei Paesi tropicali. Il riscaldamento delle temperature gioca certamente una parte nella sua diffusione in Italia così come sono responsabili le terribili condizioni di sovraffollamento cui sono soggetti i migranti nei campi di concentramento in Libia o altrove. Infine, gli acari resistenti ai trattamenti stanno diventando più comuni”.
Quali sono le terapie?
“La cura tradizionale è la permetrina ma è su questa che si concentrano le resistenze. A Pescara ho sempre preferito il benzoato di benzile al 25% in soluzione oleosa che continua a dare ottimi risultati. Esiste anche una terapia orale con ivermectina, da ripetere due volte a distanza di una settimana. Se si è fortunati si guarisce in un paio di giorni. Ma ci possono volere mesi. E anche la profilassi è importante perché ritornare in un ambiente contaminato comporta il rischio concreto di una nuova infestazione. La malattia si manifesta tra le 2 e le 4 settimane la prima volta. Dopo 3 giorni nel caso di una successiva colonizzazione perché il sistema immunitario riconosce subito l’acaro e lo attacca”.
Ci sono strumenti di prevenzione?
“La profilassi degli spazi e le terapie preventive delle persone con le quali si è entrati in contatto. La notifica dei casi poi è fondamentale. Non c’è molto altro da fare perché né sapone né alcool possono uccidere l’acaro. In teoria l’animale si può vedere ad occhio nudo, ma in pratica passa inosservato, soprattutto sullo sfondo degli arrossamenti. Il tracciato dei cunicoli viene spesso distrutto dalle unghie.
La prevenzione è l’informazione tra colleghi e verso la popolazione. Non c’è nulla di vergognoso nella scabbia: ma va trattata senza pudori, per il proprio benessere e per proteggere le persone più deboli”.



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