La Sanità digitale deve creare una Sanità nuova, non digitalizzare quella esistente

Per farlo, secondo Pietro Giurdanella (Fnopi), bisogna spostare lo sguardo verso l’obiettivo: un cambiamento in sanità forte come quello portato dall’home banking o dallo streaming online.
esclusione digitale
Pietro Giurdanella

«L’home banking ha superato la carta e la presenza fisica ed ha creato prossimità: dal divano di casa posso fare tutto quello che una volta richiedeva una visita in filiale, salvo le prestazioni più delicate. Quelle delle banche – e lo stesso dicasi per quelle delle piattaforme di streaming online – sono state digitalizzazioni che hanno cambiato il modello di servizio e il comportamento di un intero settore: utenti e prestatori d’opera. A questo livello di cambiamento deve guardare la sanità: ed è un cambiamento umano, di relazione, di autonomia, di abitudini, di organizzazione dei processi. La tecnologia è solo uno strumento».

«Questo cambiamento è possibile, ma non scontato» dice Pietro Giurdanella, consigliere nazionale della Federazione Nazionali Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi) ed esperto di trasformazione digitale.

Le criticità: quando l’innovazione fallisce?

«Sostanzialmente quando la tecnologia abbaglia e fa dimenticare che rendere l’innovazione un successo è l’obiettivo condiviso tra gli stakeholder; in questo caso pazienti e professionisti. Noi abbiamo adottato molte tecnologie negli ultimi 15 anni, spesso non interoperabili. Abbiamo bisogno di più uniformità e più visione».

Un esempio concreto di innovazione a metà?

«La dematerializzazione della ricetta è un esempio. Si tratta di un primo passo importante e necessario, ma deve essere associato ad una revisione dei percorsi di presa in carico. Se io tolgo la carta, ma comunque devo portare la persona in ospedale, come accadeva prima, che cosa ho ottenuto? Ho digitalizzato la burocrazia, creando un ulteriore difficoltà: quella legata alla fragilità digitale degli utenti anziani. La digitalizzazione sanitaria non può fermarsi qui: non deve digitalizzare la sanità esistente, basata sulle prestazioni. Non ce lo possiamo permettere perché le prestazioni aumenteranno sempre di più con la crescita delle cronicità. La sanità digitale deve creare una sanità nuova, incentrata sulla “casa come primo luogo di cura”, sulla prossimità e sulla prevenzione. Allora cambia il paradigma, mettendo al centro il domicilio e l’invecchiamento in salute».

A cambiare, lei dice, devono essere i modelli di presa in carico. Cosa significa?

«Pensiamo ad una situazione kafkiana che è tutt’altro che isolata nella sanità italiana. Quando un paziente viene operato per un tumore all’intestino, non di rado torna a casa con una stomia: un sacchetto per la raccolta delle feci che si apre sull’addome. Questa condizione può essere permanente. I sacchetti sono forniti in farmacia e pagati dal SSN. Attualmente, l’infermiere prepara il modulo, il medico lo deve firmare (un passaggio che potrebbe essere evitato) e la farmacia riceve la ricetta e sottomette l’ordine.

Nell’arco di diversi giorni che intercorrono tra l’ordine e l’arrivo dei sacchetti (ce ne sono di diversi tipi che si adattano a diverse stomie), la stomia stessa del paziente si modifica. Ha bisogno di un altro tipo di sacchetti. Cosa deve fare? Tornare in ospedale e rifare l’intero percorso con una nuova ricetta. Ora, cosa è vera digitalizzazione?Superare questa burocrazia le cui logiche risiedono nel passato e sviluppare un sistema che ci permetta di ordinare online e far arrivare direttamente a casa delle persone quello di cui ha bisogno con tre click».

Che ruolo ha l’infermiere in questo orizzonte?

«L’infermiere non può rispondere da solo a tutte le sfide lanciate dalla digitalizzazione. Ha, però, un grande potenziale: diventare l’attivatore di rete, dell’equipe multidisciplinare, della famiglia, della comunità di riferimento e delle istituzioni. Portare la digitalizzazione e la cura nell’ultimo miglio significa riempire questo snodo di persone e di umanità. Familiari, caregiver, vicini di casa, terzo settore vanno coinvolti per superare le tante difficoltà che affronta l’utenza fragile e vulnerabile, a partire dalla già citata fragilità digitale. L’infermiere è, forse, l’unica figura in grado di fare da ponte tra astrazione, tecnologie e persona reale perché è quella figura che con la persona, e con la sua comunità, parla continuamente e instaura relazioni vere e profonde».

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