L’articolo di Umberto Manera, MD, PhD Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini” – Università di Torino e membro BraYn Association ETS
Negli ultimi decenni, i neurofilamenti a catena leggera (NfL) si sono affermati come promettenti biomarcatori nel campo delle neuroscienze, consentendo un significativo avanzamento sia nella ricerca di base che nella medicina traslazionale. La prima descrizione dei neurofilamenti risale agli anni ‘50 grazie ai lavori pionieristici di Francis O. Schmitt e Betty Geren, ma la loro classificazione dettagliata avviene negli anni ‘80, quando studi biochimici sui componenti del citoscheletro neuronale li hanno identificati come strutture filamentose classificate in tre sottotipi sulla base del peso molecolare: neurofilamenti a catena leggera (NfL, ~68 kDa), media (NfM, ~145 kDa) e pesante (NfH, ~200 kDa).
Tra questi, i neurofilamenti a catena leggera (NfL) sono i più piccoli e abbondanti. Essi svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’integrità assonale e nella trasmissione dell’impulso nervoso. L’importanza di questa scoperta risiede nel fatto che ha permesso una maggiore comprensione dei processi patologici alla base di molte malattie neurologiche. La traslazione di queste conoscenze nella ricerca biomedica ha poi aperto nuove prospettive diagnostiche, prognostiche e terapeutiche per numerose condizioni neurologiche, contribuendo a migliorare le strategie di trattamento e monitoraggio clinico.
Quali fattori fanno modificare il livello dei neurofilamenti nel sangue?
I neurofilamenti a catena leggera (NfL) sono proteine specifiche dei neuroni e rappresentano una componente strutturale fondamentale degli assoni. In condizioni normali, queste proteine contribuiscono a mantenere l’integrità e la funzionalità degli assoni, permettendo la trasmissione efficiente degli impulsi nervosi. Tuttavia, in seguito a eventi patologici come danni neuronali o degenerazione degli assoni, i NfL vengono rilasciati nel liquido extracellulare, da cui passano rapidamente al liquor cerebrospinale e al circolo sanguigno. Pertanto, il dosaggio plasmatico dei NfL diventa un indicatore affidabile di danno assonale o neuronale in atto, analogamente al ruolo che la troponina riveste per il danno cardiaco o la creatinfosfochinasi (CPK) per il danno muscolare.
Un aumento significativo dei livelli di NfL nel sangue è stato osservato in numerose patologie neurologiche, tra cui la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la malattia di Alzheimer, la sclerosi multipla e altre condizioni neurodegenerative. Inoltre, incrementi considerevoli si riscontrano anche nelle neuropatie acute infiammatorie come la sindrome di Guillain-Barré, nelle neuropatie associate a pazienti in condizioni critiche (neuropatie da area critica) e in seguito a traumi neurologici. Il meccanismo che determina questo aumento dei livelli di NfL plasmatici è legato principalmente al rilascio passivo di queste proteine dai neuroni lesionati, seguito dalla loro diffusione dal tessuto nervoso al liquido extracellulare e successivamente al flusso sanguigno, riflettendo così l’entità del danno neuronale sottostante.
Come si dosano i neurofilamenti a catena leggera (NfL)?
Come mai dalla scoperta dei neurofilamenti solo oggi riusciamo a dosarli nel plasma? La ragione principale è legata alla loro bassissima concentrazione plasmatica, dell’ordine dei picogrammi per millilitro, che per molto tempo ha rappresentato una sfida tecnica insuperabile. Solo recentemente sono state sviluppate apparecchiature sofisticate in grado di rilevare concentrazioni così minime.
Tra queste, le metodiche più utilizzate sono la tecnologia SIMOA (Single Molecule Array) e la CLEIA (Chemiluminescent Enzyme Immunoassay). La tecnologia SIMOA si caratterizza per la sua elevata sensibilità e precisione, consentendo di rilevare concentrazioni estremamente basse di numerosi biomarcatori, anche in assenza di un significativo danno neurologico. Tuttavia, questo metodo richiede apparecchiature avanzate, costose e personale altamente specializzato, che ne complica l’implementazione nella pratica clinica quotidiana. La tecnologia CLEIA presenta il vantaggio di una maggiore rapidità di esecuzione, semplicità di utilizzo e una migliore adattabilità ai contesti clinici standard, sebbene la sensibilità risulti lievemente inferiore rispetto alla tecnica SIMOA.
Quali sono le prospettive di utilizzo dei NfL nella pratica clinica?
L’utilizzo clinico dei neurofilamenti a catena leggera ha assunto grande rilevanza negli studi terapeutici e nella ricerca neurologica, grazie alla loro capacità di definire parametri prognostici e terapeutici innovativi, fornendo informazioni utili sia ai ricercatori che ai clinici. Un esempio particolarmente significativo è rappresentato dai trial clinici condotti sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA), specialmente per quanto riguarda i pazienti portatori di una mutazione del gene SOD1.
In particolare, gli studi VALOR e OLE hanno dimostrato che il monitoraggio dei livelli plasmatici dei NfL è in grado di offrire informazioni importanti non solo sulla gravità e sul decorso della malattia, ma anche sull’efficacia e sulla risposta al trattamento sperimentale. In particolare, in questi studi, la misurazione della riduzione del livello di NfL plasmatici ha anticipato la risposta clinica, permettendo di anticipare il risultato di efficacia poi confermato dall’osservazione clinica più prolungata. Attualmente, il dosaggio dei NfL è stato inserito in pressoché tutti i trial clinici randomizzati in ambito neurologico, riconoscendone l’importanza crescente come biomarcatori affidabili. Un’altra prospettiva significativa è il loro utilizzo nella definizione di stadi di gravità o nella valutazione prognostica di numerose sindromi neurodegenerative. Inoltre, il dosaggio dei NfL può contribuire efficacemente a distinguere pazienti affetti da patologie neurodegenerative da quelli con condizioni neurologiche benigne, favorendo così un approccio clinico più accurato e personalizzato.
Ci sono limitazioni o aspetti controversi relativi al loro utilizzo?
Nonostante le grandi aspettative suscitate dall’utilizzo clinico dei neurofilamenti a catena leggera (NfL), nella pratica quotidiana è fondamentale essere consapevoli di diverse limitazioni che possono influenzare significativamente l’interpretazione dei risultati. Innanzitutto, è importante ricordare che i NfL rappresentano un marcatore aspecifico, il cui livello plasmatico può aumentare non solo per danni neurologici, ma anche per fattori fisiologici come l’età avanzata del paziente, la ridotta funzionalità renale e interazioni ancora poco chiare con diverse proteine plasmatiche.
Inoltre, la comunità scientifica non ha ancora definito valori di riferimento universalmente validi, e la variabilità individuale e della tecnica utilizzata può influire significativamente sul risultato. Questo implica la necessità di interpretare con estrema cautela i risultati ottenuti, evitando di considerare i valori dei NfL in modo assoluto o basandosi su soglie arbitrarie, e sottolineando sempre l’importanza di integrarli in un contesto clinico e diagnostico più ampio.
In sintesi, quali sono le attuali applicazioni cliniche dei neurofilamenti in Italia e quali sviluppi si prevedono per il futuro nel campo delle neuroscienze?
Presso la Città della Salute e della Scienza di Torino, così come in altri centri ospedalieri italiani specializzati, il dosaggio plasmatico di NfL è disponibile esclusivamente su richiesta specialistica neurologica. Attualmente, utilizziamo questo biomarcatore principalmente per la stratificazione e il monitoraggio clinico dei pazienti affetti da malattie neurodegenerative, come la SLA, le altre malattie del motoneurone e le demenze. Recentemente abbiamo avviato una valutazione longitudinale nei pazienti seguiti dal Centro Regionale Esperto SLA di Torino, volto a monitorare sistematicamente l’evoluzione clinica della malattia nel tempo, e i risultati ottenuti finora appaiono promettenti.
Vogliamo definire con maggiore accuratezza come il loro valore si modifichi durante la progressione della patologia e, grazie al loro utilizzo, definire meglio la risposta alle diverse strategie terapeutiche, sia farmacologiche che di supporto, come la ventilazione non invasiva. Ulteriore interesse è rappresentato dall’integrazione dei neurofilamenti con altri biomarcatori di neurodegenerazione già disponibili con un semplice prelievo di sangue, quali la proteina tau fosforilata nelle forme p-tau 181 e p-tau 217.
Inoltre, è sempre più evidente la necessità di una continua integrazione tra neuroscienze di base e cliniche, per garantire un rapido passaggio di conoscenze e tecnologie in senso bidirezionale. Infine, la combinazione di questi biomarcatori con sistemi innovativi di sanità digitale, come il telemonitoraggio tramite sensori low-cost, potrebbe consentire una più precisa valutazione degli effetti terapeutici non farmacologici, favorendo una maggiore personalizzazione delle cure e contribuendo a ridurre i costi sanitari e assistenziali grazie a una migliore allocazione delle risorse.
Per saperne di più
Umberto Manera, MD, PhD
Neurologist, Assistant Professor
Centro Regionale Esperto per la Sclerosi Laterale Amiotrofica (CRESLA)
Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini” – Università di Torino
AOU Città della Salute e della Scienza di Torino
Membro BraYn Association ETS