Il carcinoma ovarico rappresenta una delle principali sfide nel panorama della salute femminile, nonostante la sua incidenza relativamente bassa rispetto ad altri tumori ginecologici per via della leggerezza dei suoi sintomi iniziali. Per fare chiarezza sulle caratteristiche della malattia e le difficoltà nella sua gestione, abbiamo intervistato la dottoressa Michela Zublena, segretaria dell’Associazione ALTo, e la dottoressa Maria Teresa Cafasso, presidente dell’organizzazione.
Una patologia eterogenea e complessa
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità divide il tumore ovarico in due categorie principali: quello primitivo, che origina direttamente dalle cellule dell’ovaio, e quello secondario, che raggiunge l’ovaio da altre parti del corpo,” spiega la dottoressa Zublena.
Tra i tumori primitivi, il carcinoma ovarico epiteliale è il più comune e rappresenta circa il 60% delle diagnosi. Recenti scoperte hanno evidenziato che non si tratta di una malattia unica, ma di un insieme di sottotipi con caratteristiche diverse, che influenzano risposta alla terapia e prognosi.
Tra i principali fattori di rischio troviamo l’età avanzata, una storia familiare di tumori ovarici o al seno, endometriosi, mutazioni genetiche come quelle nei geni BRCA1 e BRCA2, la nulliparità e l’obesità. D’altro canto, fattori protettivi includono gravidanze multiple, allattamento al seno e uso prolungato di contraccettivi orali.
Difficoltà diagnostiche e impatto sociale
“Il carcinoma ovarico è spesso asintomatico nelle fasi iniziali, e i sintomi che compaiono successivamente sono poco specifici, come gonfiore addominale, dolori addominali o frequente bisogno di urinare,” continua la dottoressa Zublena.
Questa natura “silente”, unita all’assenza di programmi di screening efficaci, fa sì che l’80% delle diagnosi avvenga in stadi avanzati, con un impatto negativo sulla sopravvivenza, che a 5 anni si attesta intorno al 43%.
A livello sociale e familiare, la malattia destabilizza profondamente gli equilibri. Le donne colpite devono affrontare interventi chirurgici complessi e lunghe terapie, con ripercussioni sulle dinamiche familiari e lavorative. Inoltre, molte pazienti si trovano a dipendere dal sistema di welfare, accentuando l’impatto economico e sociale della patologia.
Criticità del sistema sanitario
La dottoressa Cafasso pone l’accento sulle carenze del sistema sanitario: “Troppo spesso i medici di base non riconoscono i sintomi o non indirizzano le pazienti verso specialisti competenti, ritardando così la diagnosi. Inoltre, molte donne non hanno accesso a centri altamente specializzati, che garantiscono una migliore prognosi.”
Secondo studi recenti, essere curate in centri specializzati può ridurre la mortalità del 12%, ma in Italia solo un terzo delle donne riceve cure in queste strutture.
Prevenzione e terapie innovative
Sebbene non esistano programmi di screening predittivi, è possibile ridurre il rischio attraverso interventi preventivi nelle donne portatrici di mutazioni genetiche.
“L’annessiectomia preventiva, ossia la rimozione delle ovaie, può salvare vite, ma è una scelta complessa che impatta sulla sfera femminile e sulla fertilità,” spiega Cafasso.
Recenti studi, come il protocollo Tuba Wisp 2, propongono interventi in due fasi, permettendo di preservare temporaneamente la funzionalità ovarica.
Un altro aspetto cruciale è l’accesso alle terapie innovative e ai protocolli sperimentali, disponibili solo in centri di eccellenza.
“È fondamentale sensibilizzare sia i professionisti sanitari che le pazienti sull’esistenza di queste opportunità,” sottolinea Cafasso. “Solo una gestione centralizzata e multidisciplinare può garantire un percorso clinico adeguato dalla prevenzione al follow-up.”
Verso un futuro migliore
Per migliorare la gestione del carcinoma ovarico in Italia, sarebbe necessario uniformare l’accesso ai centri di eccellenza e implementare percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) specifici in tutte le regioni. Inoltre, occorre investire nella formazione dei medici di base e nella sensibilizzazione della popolazione sui fattori di rischio e sui sintomi della malattia.
“L’informazione è il primo passo per salvare vite,” conclude la dottoressa Cafasso.
Una maggiore consapevolezza, unita a politiche sanitarie mirate, potrebbe fare la differenza nella lotta contro questo nemico silente.